13 novembre 2009

SANTE PAROLE DALLA CARTA STAMPATA

Dalla rubrica di Corrado Augias sul Corriere della Sera:

ORA MI DOMANDO SE E' VALSA LA PENA STUDIARE

Gentile Augias, grazie ai sacrifici della mia famiglia, ho potuto studiare. Ho due lauree specialistiche con 110 e lode, un dottorato triennale, vari altri anni di ricerca post-dottorale (...). Sono stato invitato a collaborare alcuni mesi con una delle più prestigiose università americane. Ho avuto l'onore di essere chiamato a lavorare con i maggiori esperti al mondo del mio campo di ricerca. Ho all'attivo molte pubblicazioni (...). A 35 anni sono rimasto senza contratto universitario. Dopo pochi mesi, fortunatamente, sono stato assunto in ruolo come insegnante nei licei (...). Il primo stipendio è stato di 1250 Euro. Al momento mi venne da ridere. Ora no. Mia moglie è stata licenziata a seguito della crisi e abbiamo una figlia. Non facciamo la coda alla Caritas soltanto perchè non abbiamo un affitto da pagare. Non posso lamentarmi, altrimenti i miei compagni di studio, che stanno peggio, me lo rinfacciano, e hanno ragione. Domanda: potrò dire a mia figlia che è importante studiare per il proprio avvenire?
Lettera firmata

Risposta: sì, potrà dirglielo per molti buoni e cattivi motivi che cerco di esporre.
Il primo: per una persona perbene, non sono molte le altre possibilità per cercare di fare qualcosa nella vita (...). Un'alternativa possibile è cercare di arraffare soldi con qualunque mezzo, può anche essere un buon rimedio; basta guardarsi intorno e vedere come molti di questi girino su grosse auto fumando sigari costosi, mentre i prof contano i soldi per vedere se possono andare o no al cinema o comprare un libro. (...).
Ma ci sono persone per le quali il lavoro intellettuale è di gran lunga quello preferibile, anche a costo di fare sacrifici. (...).

Dalla rubrica di Umberto Galimberti su D di Repubblica:

L'ARDUO SENTIERO DELL'AMICIZIA

(...) Nella vita sciatta di tutti i giorni, noto con triste ripetizione lo sbandieramento quasi sfrontato (e a tratti cafone) di inutili trofei, ma non sarebbe più bello se tutti noi potessimo mostrare tanti amici come tratto distintivo di vera ricchezza?

Più la società diventa di massa - o nella forma di quella solitudine che ci incolla davanti a un computer vittime di una bulimia affettiva, (...) o nelle adunate di massa in occasione di concerti, (...), o per applaudire parole che confermano le idee che già abbiamo o la fede che già possediamo - più l'amicizia diventa difficile e impraticabile. (...).
Oggi conosciamo solo il singolare e il plurale. (...).
Nel singolare incontriamo la solitudine dell'anima che vagheggia mondi e ideazioni che mai avremmo il coraggio di rivelare in pubblico, che si inabissa in dolori che la buona educazione ci induce a non manifestare, che si esalta in entusiasmi che sfuggono a ogni misura e moderazione. (...).
Al plurale dobbiamo dar prova di sano realismo, che ci chiede di stare ai fatti, di controllare le emozioni, di misurare le parole, di essere più una risposta agli altri che propriamente noi stessi.
E tutto questo per essere accettati, riconosciuti, identificati, e nei casi estremi persino applauditi.
(...).
Tra l'anonimato del pubblico e la solitudine del privato, l'amicizia, che abita il duale, consente di comprendere tutte quelle eccedenze di senso che nel segreto la nostra anima crea.
(...)
Per questo, penso, non si possono avere molti amici, come invece Lei si augura, ma solo quei pochissimi che corrispondono alle sfaccettature della nostra anima (...).
Se questa è l'amicizia, la nostra cultura (...) non è la più idonea a favorire quell'incontro a tu per tu con quello sconosciuto che ciascuno di noi è diventato per se stesso (...).

I GIOVANI E LA POLITICA

Ho 19 anni e studio storia contemporanea alla Sapienza di Roma.
(...)
Come si può convogliare la frustrazione e la tristezza di vivere di migliaia di giovani (e meno giovani) in un movimento collettivo e liberatorio?
Sono domande che mi tormentano e questioni che affronto nella trasmissione radiofonica che conduco insieme a un amico sull'emittente web della mia università, un canale che più di nicchia non esiste.

(...) La "rivoluzione" del Sessantotto è stata avviata da giovani che si trovavano in una condizione decisamente migliore dei giovani di oggi, perchè a differenza di questi avevano un futuro. (...).
Il futuro era una promessa e non una minaccia come appare ai giovani di oggi. Naturalmente, quando non è una promessa, il futuro non retroagisce come motivazione all'impegno, allo studio, all'investimento sulle proprie capacità. (...).
Eppure, affogati in un mare di demotivazione, sfiducia e - non di rado - sconforto, i giovani d'oggi non manifestano il loro disagio, che pure traspare nelle loro giornate piene di inedia e nelle loro notti insonni. (...).
L'impegno politico non attrae i giovani di oggi. E questo è un sintomo che dice essersi ormai stratificata in loro la persuasione che nulla può cambiare, per cui tanto vale vivere con intensità ed estrema vitalità l'assoluto presente, perchè il futuro non è nelle loro mani, e quindi neppure nelle loro prospettive.
(...)
Tutto questo si chiama "nichilismo", da imputare non al fatto che sono crollati i valori (...) ma al fatto, come opportunamente ci ricorda Nietzsche, che "manca lo scopo, manca il perchè", e forse anche la forza, la fiducia che qualcosa possa cambiare.
E non basta l'ottimismo che i nostri canali televisivi ogni giorno cercano di diffondere, perchè il pessimismo e la sfiducia sono ormai dentro l'anima, e la consumano privandola di slanci e ideazioni.
(...) avremmo bisogno di una politica che non sia solo una difesa strenua di interessi, o peggio di clientele, ma sappia offrire se non una nuova visione del mondo, la fiducia almeno che non tutto è immodificabile. Perchè questa è la vera stagnazione, prima ancora di quella economica.

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