18 luglio 2008

PASSIONI AL LIMITE DELL'INCOMPRENSIBILE?

E' sconvolgente la notizia dell'altroieri dell'incidente mortale dell'alpinista Karl Unterkircher sui terribili ghiacciai del Nanga Parbat, in Pakistan. Leggo oggi che il Nanga è la settima montagna più alta del mondo e il suo nome significa "la montagna nuda", ma è nota anche come "la montagna mangiauomini", essendo già stata scenario di incidenti mortali per altri esploratori che avevano osato sfidarne le altitudini. Unterkircher era un alpinista di enorme esperienza e incredibile coraggio, che aveva già affrontato e vinto sfide incredibili con i due compagni superstiti di questa spedizione, i quali ora, dopo aver visto il loro capocordata morire precipitando in un crepaccio, attendono i soccorsi a quota 6950 metri.
Su Internet sono stati pubblicati gli ultimi post lasciati da Karl sul suo blog, alla vigilia di quest'impresa. Leggerli è veramente scioccante.
Sembra quasi che l'alpinista sentisse un presagio incombere sulla scalata di questi impervissimi 7000 metri; le sue parole sono quelle di un uomo non nuovo ad imprese eccezionali, certamente temerario eppure mai incosciente, e quindi, proprio per questo, questa volta titubante e preoccupato, soprattutto per un ghiacciaio che, scrive Karl, facilmente ostacolerà la salita. Il pensiero di questo ostacolo lo tormenta, gli impedisce di darsi alla lettura nel campo base, in una delle ultime sere che lo separano dall'inizio dell'impresa.
C'è un passaggio di questo diario in cui Karl dice che la cosa più ragionevole sarebbe rinunciare; ma poi, contradditoriamente, quasi in chiusura dell'ultimo messaggio torna sui propri passi, e scrive che dopo tutta la preparazione di questa impresa, tirarsi indietro alla vigilia della scalata sarebbe impensabile.
Pensa alla famiglia, alla moglie e ai figli che oggi lo piangono, dice di sentirsi responsabile per loro, ma al tempo stesso conclude il suo diario dicendo che chi non frequenta la montagna non può capire. La montagna chiama, e quindi "Inshallah": sarà come Dio vorrà.
A pochi giorni di distanza da queste parole la montagna, tante volte domata da Karl, questa volta lo ha divorato. Nemmeno i suoi compagni hanno potuto sottrarlo a una morte certa dopo la caduta nel crepaccio; hanno dovuto continuare per salvarsi, lasciandosi alle spalle il suo corpo già sepolto dalla neve.
Cosa si deve pensare di fronte a una testimonianza umana di questo tipo?
Per prima cosa io ho pensato alla moglie di Karl e ai suoi tre bambini piccoli, che non riavranno nemmeno un corpo su cui piangere. E ho pensato che non si può, non si deve mettere così a rischio la vita e sacrificare un patrimonio di affetti per arrivare alla vetta di una montagna.
Ma subito dopo ho pensato diversamente.
Ho riflettuto ancora su quelle parole scioccanti che chiudono il diario di Unterkircher. Chi non frequenta la montagna non può capire; la montagna chiama: Inshallah.
Queste parole esprimono una fede, una tensione insopprimibile verso, in qualche modo, una dimensione trascendente.
Cosa si può provare a 6000 metri di altezza, circondati solo da neve, ghiacci perenni e silenzio? Cosa si deve sentire perchè non basti averlo provato una, due, sette, otto volte e aver avuto salva la vita, e volerci tornare ancora sapendo bene, come Karl sapeva, di correre sul filo di un rasoio?
Evidentemente qualcosa che può spingere un uomo a mettere a repentaglio la propria vita, e in second'ordine anche una moglie e dei figli. Del resto, la moglie ha già dichiarato che Karl ha fatto sino in fondo quello che voleva fare, con quella stoica accettazione della tragedia che spesso contraddistingue le eroiche mogli di questi uomini fuori dal comune.
Devo dire che una parte di me ha profondamente capito la scelta di quest'uomo.
Posso rimanere scettica sulla motivazione agonistica, sul gusto della sfida senza limiti, sull'inseguimento del primato fine a se stesso.
Ma sono certa, sono sicura che il primo motore che spinge questi uomini alle loro imprese non è questo. Da solo, non porterebbe a sfidare la morte.
E' evidente che queste sfide portano fuori dalla dimensione "normale" del vivere, e mettono le ali allo spirito.
Per qualcosa di così grande, certo, il prezzo da pagare può essere altissimo, come dimostra quest'ultimo episodio.
Ma, mi domando saltando con l'occhio dalla cronaca di questa sventura alle miserevoli, squallide notizie della cronaca locale e estera, è meglio vivere una vita intera soffocati dalla noia della normalità, o piuttosto morire a 37 anni essendo più volte arrivati a sfiorare le ali degli angeli?
E' meglio arrivare alla fine di ogni giornata sapendo già che la successiva, più o meno, ne sarà la fotocopia, e così pure quella dopo, e quella dopo ancora, o vivere una vita più breve, ma INTENSAMENTE vissuta?
Certo, le esperienze estreme non sono per tutti.
Ma la tragica eccezionalità di una vita come questa mi dà ancor più da pensare sulla modestia della mia, mi fa pensare che è un delitto anche far scorrere un'esistenza senza il coraggio di qualche salto nel buio; senza per forza andare incontro a una morte prematura.
Ma avere la forza di dare A TUTTI I COSTI colore alla nostra esistenza, dato che una è, e di riserva non ne abbiamo per poter un giorno dire "Vivrò meglio la prossima volta"; per non doversi pentire, per non avere un debito con se stessi.
La tragedia del Nanga Parbat è qualcosa che ha tanto da insegnare. I giornali di questi giorni valgono la pena di essere letti solo per questo.
Laura