2 luglio 2010

UNA VITA NEL REALITY, UNA MORTE NEL REALITY

La morte di Pietro Taricone, in seguito a un incidente in paracadute di cui non voglio nemmeno immaginare le conseguenze sul suo povero corpo, tantomeno se fosse riuscito a sopravvivere, mi lascia una sensazione di profondo sgomento.
La sua bambina di sei anni: non ha saputo subito, e mi sono domandata cosa si possa silenziosamente scatenare nella testa di un bambino nell'apprendere che all'improvviso (avendo lei saltato i passaggi consequenziali della terribile vicenda) il papà non tornerà più.
La compagna: una tra le tante venute dall'est in cerca di fortuna e tra le pochissime ad averla trovata (o almeno, così si poteva dire fino a una settimana fa), conosciuta in uno di quei luoghi dell'assurdo, un set cinematografico, in cui solo si possono conoscere e innamorare un bel ragazzo meridionale nipote di contadini, catapultato dalla sera alla mattina nel circo folle dello spettacolo, e una ragazzina magra, decisa a uscire dall'anonimato miserello delle sue origini polacche puntando su un visetto dolce, i tratti minuti ma due occhi grandi così, che fino a qualche giorno fa, prima di spegnersi quasi dalle lacrime, volevano divorare la vita, proprio come è stato detto di lui.
Intorno ai due, la morsa di un'attrazione fatale, purtroppo nel senso letterale del termine, per i riflettori, il successo, i soldi, forse non tanto in sè quanto per la possibilità di spenderli per vivere ai confini della realtà, in senso fisico ed emotivo, proprio come suppongo avvenga quando ci si lancia da un aereo con il paracadute.
Non sono d'accordo con quanto è stato scritto in questi giorni sui giornali: che Pietro Taricone si sarebbe distinto fra gli ormai innumerevoli protagonisti delle innumerevoli edizioni del Grande Fratello per il fatto di essere quello "diverso", quello "che non voleva farsi stritolare dal meccanismo televisivo delle comparsate", quello che "sì, voleva recitare, ma voleva arrivarci studiando e capiva che era una strada lunga e impegnativa".
Penso invece esattamente il contrario: che Pietro Taricone non abbia saputo, sostanzialmente perchè privo degli strumenti della cultura benchè probabilmente tutt'altro che stupido, opporre resistenza al richiamo delle sirene della vita spericolata, dell'ossessione del brivido (come si fa ad andare appositamente negli Stati Uniti per lanciarsi con il paracadute esattamente come si può fare, e aveva già fatto, in Italia, per poi tornare dal viaggio e di nuovo andare a lanciarsi con il paracadute?), del buttarsi in avanti senza pace, senza requia, perchè privi di un profondo perchè della propria esistenza, non individuato nemmeno nella paternità.
E così si butta via la vita, e a 35 anni ci si trova sepolti nel cimitero del paese accanto al nonno contadino, e la nonna piange il nipote con gesti e parole che non potrebbero aver meno a che vedere con lo spettacolo che deve continuare, e parlano invece di altri tempi, di un altro mondo e di un altro modo di vivere i lutti: totalizzante, assoluto, e in questa sua assolutezza di un'autenticità che spazza via con la violenza della vita vera, vissuta, l'immondo baraccone dentro il quale il nipote ha creduto, prendendo un tragico abbaglio, di trovare il senso della propria esistenza e la felicità.

Laura

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