OGGI MI SONO RILETTA UN POST LASCIATO NELLE BOZZE CHE AVEVO SCRITTO TEMPO FA.
MANCAVANO GIUSTO POCHE RIGHE CONCLUSIVE (E UNA BELLA IMMAGINE PERTINENTE), ED ECCOLO PRONTO.
Il nostro amico Sergio mi ha consigliato un libro che mi sono precipitata a comprare in Feltrinelli, e sin dalle prime pagine ho capito che davvero ne valeva la pena. E' la Trilogia di Vigevano di Lucio Mastronardi: mi viene da definirlo come un Luciano Bianciardi meno noto e senz'altro sottovalutato, benchè molto stimato da Vittorini e Calvino, che lo aiutò ad entrare nella cerchia degli autori einaudiani.
A Vittorini Mastronardi scrisse, venticinquenne, una coraggiosa lettera di presentazione, dalla quale traspaiono il desiderio di un riconoscimento della qualità del proprio lavoro, ma anche l'umiltà di sottoporsi all'esame di grandi uomini di lettere. Lo scrittore si procurò così la stima e l'appoggio di Vittorini stesso e più tardi anche di Calvino; ciononostante fu sempre, anche per la sua ipersensibilità e le fragilità caratteriali, una figura di perdente, destinata a rimanere ai margini delle vicende importanti della letteratura del dopoguerra. Vicende rispetto alle quali avrebbe invece sicuramente meritato un ruolo da protagonista.
La Trilogia è un impietoso, a tratti rabbioso (e sempre anche disperato) ritratto dell'Italietta di provincia degli anni Cinquanta/Sessanta, soffocata dalla sua ignoranza, dalla sua grettezza, dalla sua angustia di vedute. L'Italietta da poco riemersa dai disastri della guerra, che vive il passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale, con le prime "fabbrichette" e le prime avvisaglie del boom economico che farà la fortuna di pochi e creerà l'infelicità dei molti che cominceranno a sognare qualcosa di più del minimo tirare a campare, e invece dovranno ancora accontentarsi di meno di niente.
Cosa rende un libro come questo di una sconvolgente, direi drammatica attualità?
Il fatto che a scorrerne le pagine, a percorrere con Mastronardi le strade di Vigevano, a soffermarsi con lui nelle piazze, sotto i portici, ai banconi dei bar e sul sagrato della chiesa la domenica dopo messa, ad ascoltare i discorsi degli industrialotti, degli insegnanti e dei direttori di scuola, delle mogli infelici e insoddisfatte, e purtroppo anche degli operai - quelli che stanno sempre attaccati alle sottane del padrone, nella speranza che faccia cadere per compassione qualche briciola dal suo desco o anche solo per illudersi di essere un po' come lui, di vivere di luce riflessa -; ebbene, a vedere e sentire tutto ciò, ci si rende conto che in questo Paese cinquant'anni sono davvero passati invano. Sotto la pesante mano di vernice scintillante e tarocca data da Nostra Signora la Tivvù ai nostri paesaggi, alla nostra cultura, alla verità della vita quotidiana, con il suo bene e il suo male, con le fatiche e i problemi che la contraddistinguono; dietro il sipario del perenne avanspettacolo da quattro soldi, dei nani e delle ballerine, dei "quizzers", dei Grandi Fratelli e delle Isole dei Famosi/Nonfamosi/Cosìcosì, degli eterni ritorni dei Festival di Sanremo, della politichetta delle mafie, dei grandi e piccoli delinquenti, degli arrapati di soldi e battone/i, dell'inestirpabile vizietto della stecca, della mazzetta, del regalino, delle risate alle tre del mattino alle spalle dei poveri disgraziati, del trionfo dei buzzurri, dei ladri, delle puttane, degli evasori fiscali... Dietro tutto questo, non rimane altro che la stessa, identica, sconfortante Italietta da quattro lire di Mastronardi.
Che cosa c'è di diverso fra il "ganassa" che una sera sì e l'altra sì scende dall'auto di lusso davanti al bar centrale di Vigevano per mostrare i suoi trofei, ossia il macchinone e la sua signora addobbata di gioielli come un albero di Natale, e gli innumerevoli magnaccia vestiti dagli stilisti zarroni, i vari furbetti del quartierino, i papponi che non perdono occasione per portare in trionfo la bonazza di turno strabordante di silicone?
Nello stesso microcosmo della scuola, sempre indicativo specchio dei tempi e delle società, in questo microcosmo descritto con malinconica lucidità da Mastronardi (che era figlio di insegnanti e fu maestro egli stesso) quanti sono ancor oggi, a fronte di tante figure meritevoli e vergognosamente penalizzate, i burocratucci, le macchiette, i signori nessuno che in questo bozzolo hanno trovato la dimensione ideale per autoesaltarsi e darsi un ruolo, un'identità, un perchè, che altrimenti non sarebbero riusciti a conferirsi? E anche fuori dalla scuola, in quanti contesti ancora nell'Italia di oggi si possono trovare migliaia, milioni di questi meno di zero elevati a (inesistente) potenza?
Quante cose nella Trilogia di Mastronardi ci parlano, ahimè, del Paese attuale! La lista sarebbe lunga, ma giusto a titolo di esempio: la tronfia vanagloria dei dottoridirettoripresidispettori, l'autocelebrazione degli scribacchini che si sentono grandi giornalisti, la ripetitività soffocante dei riti della vita di provincia (e non solo... in molti dicono che questo nostro Paese è da considerarsi come un'unica, grande, imbozzolita provincia narcotizzata dalla televisione), la messa seguita non per devozione ma per esibizione e stanca partecipazione a un rito sociale, giammai religioso; la passeggiata e il caffè della domenica, la partita a carte nel vuoto spinto della mancanza di stimoli e svago, il calcio naturalmente, la centralità indiscussa e assoluta del vestito come biglietto da visita e lasciapassare per il riconoscimento, anzi, per l'accettazione nel consesso sociale.
Un Paese dimentico di se stesso e incapace di imparare dai propri errori.
http://lucameneghel.blogspot.com/2009/07/il-maestro-il-calzolaio-e-il.html
Laura
Un Paese dimentico di se stesso e incapace di imparare dai propri errori.
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