Prendo spunto dalla lettera scritta questa settimana allo psicologo Umberto Galimberti, nella rubrica che tiene su D di Repubblica.
Scrive Serena Annibali, studentessa di ingegneria di 23 anni:
"(...) Quando non ti basta mai ciò che hai intorno, non per una mera insoddisfazione, ma perchè sai che oltre a ciò che hai già davanti ci può essere qualcos'altro ancora che ti può arricchire in maniera diversa, allora ti rendi conto che non puoi restare fermo al tuo posto (...). Ma questa sete di conoscenza non si concilia con il modello di vita nel quale ci troviamo. (...) E' difficile trovare un equilibrio morale, è difficile trovare un equilibrio emotivo, ed è difficile trovare un equilibrio cognitivo. (...)".
E le risponde Galimberti:
"La sua ricerca dell' "equilibrio cognitivo" mi pare richieda il superamento di quella condizione di alienazione che Marx imputava alla società capitalista. Col termine "alienazione", infatti, Marx non si riferisce solo al fatto che il valore del lavoro non torna per intero al lavoratore, ma soprattutto al fatto che ciascun uomo viene apprezzato e ripagato esclusivamente per la capacità in cui eccelle. La specializzazione diventa così la sua tirannia, (...), perchè è la specializzazione che ci dà un riconoscimento e quindi un'identità sociale, oltre che una retribuzione che è poi la condizione per vivere. (...) gran parte della nostra infelicità dipende dal fatto che ci sentiamo sempre meno uomini e sempre più funzionari di apparati. (...). Penso che il proprio "equilibrio cognitivo", come Lei giustamente lo chiama, nella nostra società sempre più organizzata nella specializzazione del lavoro ciascuno lo possa trovare solo nel tempo libero, se appena evitiamo di consegnare anche questo tempo al ruolo del week end e delle ferie forzate."
C'è allora chi ancora usa la testa, si interroga, capisce, e perciò non vuole, non può allinearsi.
Chi rifiuta la logica dell'identificazione totale e alienante con il lavoro, e desidera mantenere integra, viva e pulsante una propria vita e una propria identità se non all'interno, almeno al di fuori degli spazi e dei tempi lavorativi. Che tendono a debordare, sconfinare, a divorare anche la privatezza, o comunque lasciano un margine mentale e concreto molto, troppo ristretto per realizzare felicemente un equilibrato sviluppo della propria personalità e vita intellettuale ed emotiva, delle proprie inclinazioni (che così risultano sacrificate non solo dentro, ma anche fuori dal luogo di lavoro), delle relazioni che scegliamo di coltivare in libertà e autonomia, a fronte di quelle (sempre troppe!) che subiamo nel contesto sociale e alle quali non possiamo sottrarci.
Conquistare il proprio "equilibrio cognitivo" diventa allora una sfida difficile, ma da accettare giorno per giorno per far sì che, spesso prigionieri della rete vischiosa di un sistema sociale e lavorativo corrotto e impazzito, si riesca tuttavia a rimanere liberi nella mente e nel cuore.
Laura
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